Kodomo no Omocha: Escape from reality

Cap.4: La fuga



Nello scompartimento non c’era nessuno tranne loro due.
Sana, seduta dalla parte del finestrino, guardava fuori i campi e le colline che sfuggivano velocemente, come risucchiate da un vortice.
Da quando erano saliti sul treno, né lei né Akito avevano detto una parola. Forse perché non ce n’era bisogno: la mano di lui appoggiata su quella di lei era più eloquente di mille discorsi.
Dal paesaggio esterno, l’attenzione di Sana si spostò alla propria immagine riflessa sul vetro: più si guardava, più aveva l’impressione di vedere un maschio.
- Akito… - mormorò voltandosi verso di lui.
- Dimmi.
- Mi stavo chiedendo… io d’ora in poi sarò un maschio o una femmina? Voglio dire…
- … come dovrai presentarti agli altri?
- Sì – rispose iniziando a tormentare con le dita l’orlo del suo maglione – Io ora…
- Penso sia meglio che tu finga di essere un ragazzo – affermò serio. Poi, con altrettanta serietà, continuò – ci riuscirai benissimo, visto che non sei mai stata particolarmente femminile…
Il supermartellone ci mise mezzo secondo per spiaccicarlo a terra.
- Va bene, allora – disse Sana ricomponendosi – farò finta di essere un ragazzo. Anzi, sarò tuo fratello, ok?
- Ok. Tu ti chiamerai… Jin Dojima.
- Jin Dojima?
- Era il nome di un personaggio secondario di una serie televisiva che hanno trasmesso tempo fa.
- Va bene. Allora tu sarai Satoshi Dojima. Satoshi è il mio nome preferito.
Akito sorrise, poi le strinse la mano – Senti, non ti va di dormire un po’? – le chiese.
- In effetti sono stanca… stanotte non ho chiuso occhio, poi ho dovuto alzarmi presto…
- Si vede, hai due occhiaie che sembri uno zombie appena uscito dalla tomba…
Altra supermartellata. Stavolta però Akito venne spalmato sul muro, appena sotto i retini porta valigia.
Addormentandosi, Sana appoggiò la testa alla spalla di lui, e l’ultima cosa che sentì fu il profumo dei suoi capelli, che le ricordava qualcosa di familiare, ma non definibile…

- È colpa mia, è tutta colpa mia… - mormorò Rei nascondendo il volto tra le mani.
La centrale della polizia era piena di gente che andava e veniva, di agenti che entravano e uscivano, di impiegati che portavano avanti e indietro pile di fogli, di persone che sporgevano denunce; dappertutto, attorno a loro, si sentivano squilli di telefoni, voci di uomini, ticchettio di dita sulle tastiere dei computers.
Eppure la signora Kurata sembrava non sentire nulla. Da quando erano usciti dall’ufficio del commissario e si erano seduti sulle seggiole ad aspettare, era rimasta con la lettera di Sana tra le mani appoggiate in grembo e lo sguardo fisso in avanti, nel vuoto.
Rei, turbato da quel silenzio, si voltò a guardarla, ma non disse nulla. Poi il suo sguardo tornò al pavimento.
Ad un tratto la porta dell’ufficio si aprì e ne uscì il commissario, un uomo alto e robusto sulla quarantina, seguito da un altro agente, molto più giovane, pallido e mingherlino.
- Signora Kurata – la chiamò, e lei sembrò scuotersi dalla marea dei suoi pensieri – ho dato ordine che la notizia sia trasmessa a tutte le stazioni, gli aeroporti e i porti del paese. Se qualcuno dovesse riconoscerli, verranno fermati e riportati a casa.
- La famiglia Hayama… - cominciò a chiedere Rei.
Il commissario accennò all’agente che gli stava alle spalle – Il mio segretario ha appena telefonato a casa Hayama. Naturalmente sia il padre che la sorella erano molto in pensiero, ma non avevano sospettato una vera e propria fuga. Sembra che Akito Hayama non fosse nuovo a scappatelle…
- Commissario – disse la signora Kurata con una voce e un’espressione molto posate – lei pensa che diffondere la notizia per televisione potrebbe servire?
- Era quello che volevo chiederle. Ho esitato perché so che se la cosa dovesse trapelare, si ritroverebbe la casa assediata da giornalisti, a causa della celebrità di Sana. Però, vede… la televisione raggiungerebbe tutte le case, ogni persona ne sarebbe informata. In questo modo avremmo molte più possibilità che i due ragazzi vengano riconosciuti.
- Allora proceda – disse risolutamente la signora Kurata, alzandosi in piedi e allungandogli il foglio che aveva in mano – Mandi la notizia a tutti i telegiornali, segnalando anche il contenuto della lettera; se le serve, ho qui una foto di Akito e Sana insieme. Ma la prego, lo faccia al più presto.
- Certo, signora – rispose lui prendendo la lettera – lo consideri già fatto. – e sparì dietro la porta del suo ufficio.
La signora Kurata sospirò profondamente, poi si volse verso Rei – Va tutto bene, Rei – disse dolcemente - conosco Sana, so che non farà sciocchezze, proprio come ci ha promesso nella lettera. E per quanto riguarda la colpa di ciò che è successo… tutti ne abbiamo un po’. Anche Sana.

- Ancora non mi hai spiegato dove stiamo andando! – esclamò Sana spiando negli scompartimenti ed entrando in uno vuoto: quello era il terzo treno che avevano dovuto cambiare. Ormai erano quasi le quattro del pomeriggio… dieci ore di viaggio e ancora non era finita. Ma stare con Akito la ripagava di tutto. Andava benissimo così. Poteva andare avanti in eterno con stazioni, vagoni e corse per prendere il treno, non si sarebbe mai stancata…
Akito non rispose subito, ma sistemò la sua borsa sul retino porta valigia, prese quella di Sana e la mise accanto alla prima. Assicuratosi che non potessero cadere, si sedette accanto alla ragazza e finalmente disse – Andiamo in montagna.
- In montagna?
- Sì. Ho pensato per tutta la notte scorsa a dove avremmo potuto andare. Alla fine, mi è venuto in mente un posto in cui ho passato un paio di settimane, un anno fa… - e disse il nome di una località di cui Sana aveva sentito parlare: era un paesino di montagna molto lontano da Tokyo, piuttosto sperduto, ma preso d’assalto dal turismo durante la stagione natalizia. Si diceva si trovasse in un posto splendido, in una boscosa vallata in mezzo ad una corona di montagne alte e perennemente innevate.
- E perché andiamo lì? – chiese Sana ancora più confusa di prima.
- Per prima cosa perché non penso che sia un posto dove ci verranno a cercare. Per lo meno, non dovrebbe essere tra le prime possibilità della lista. E poi perché lì conosco una persona.
- Ma, scusa, non possiamo chiedere aiuto ad un conoscente, ci riporterà a casa…
Sul volto di Akito si dipinse un sorriso – No, vedrai. Vedi, lui… è un po’ matto.
- Come? – Sana sgranò gli occhi, sempre più confusa.
- Durante quelle due settimane di vacanza feci amicizia con questa persona. È un vecchietto che vive in una grande baita lontana dal paesino, su in montagna. Siccome è un po’ fuori di testa, tutti lo tenevano alla larga, ma ha subito attirato la mia attenzione. Era simpatico.
Si accorse che Sana lo stava guardando stranita, e scoppiò a ridere – Forse ho fatto amicizia con lui perché sono matto anch’io! – ipotizzò – In ogni caso, era talmente fuso che mi ha persino dato delle copie delle chiavi di casa sua, come regalo d’addio quando me ne sono andato… guarda, eccole qua – ed estrasse dalla tasca del suo giaccone un anello di ferro a cui erano agganciate tre chiavi argentate.
- E tu… le hai accettate?! – esclamò Sana incredula.
- Perché no? Poveretto, mi si era affezionato. Diceva che assomigliavo a suo nipote. Ovviamente non avevo alcuna intenzione di usare queste chiavi, e non ce l’ho nemmeno ora. Solo, gli chiederò se può ospitarci per un po’ di tempo. E non ti preoccupare, non è assolutamente cattivo, anzi. Te l’ho detto, è solo un po’ matto.
- Sarà… - fece Sana non del tutto convinta, prendendo il mazzo di chiavi dalle mani di Akito e osservandole.
Lui osservò il suo volto, con quell’espressione attenta, e venne invaso da un’ondata di tenerezza: le prese il viso tra le mani e lo avvicinò al proprio. Le baciò il naso, la fronte, le guance, le labbra; lei rispose abbandonando le chiavi in grembo e cingendogli il collo con le braccia.
Quel momento non avrebbe dovuto avere mai fine…
Mai, mai, mai…

- Ancora nessuna notizia? – chiese Natsumi tormentando con le dita il filo del telefono, che si ingarbugliò ancora di più di quanto già non fosse.
- No, mi dispiace, signorina Hayama – rispose la voce profonda di un agente, dall’altra parte del telefono – ma se ci saranno novità la richiameremo immediatamente.
- Grazie.
Mise giù la cornetta e si nascose il volto tra le mani.
Come aveva potuto?
Come aveva potuto?
Come aveva potuto?
Presa da un impeto di rabbia, sbatté forte un pugno sul tavolino davanti a lei, che traballò, mandando un rumore sordo – Come hai potuto, disgraziato?! – mormorò con la voce tremante.
Cercò di riprendersi, fece un giro per le stanze cercando qualcosa da fare, per distrarsi da un fastidioso “qualcosa” che sentiva nelle profondità della mente e dell’anima.
Quasi senza accorgersene, salì le scale e lentamente aprì la porta della camera del fratello, che cigolò un po’.
Rimase qualche secondo con lo sguardo vagante per la stanza. Nemmeno lì c’era nulla da rimettere in ordine. Del resto, era la terza volta, quel giorno, che ripassava tutte le camere da cima a fondo: cosa voleva trovare in disordine?
Si avvicinò alla scrivania e aprì il primo cassetto; una parte remota del suo cervello diceva che non era bello frugare tra le cose di Akito, ma non la stette ad ascoltare. Cominciò a tirare fuori ciò che c’era dentro, ma trovò solo scatole di penne e pennarelli, e i vecchi diari scolastici degli anni passati.
Natsumi sospirò, e fece per rimettere tutto quanto nel cassetto, ma dal diario che aveva in mano uscì qualcosa, e lei si voltò a guardare.
Per terra giacevano due fotografie.
La prima raffigurava Sana. Era il ritaglio di un giornale, infatti i bordi erano irregolari, come tagliati in fretta; ma la ragazza era davvero bellissima in quella foto: era una pubblicità di un profumo per ragazze, con un primo piano su Sana che guardava direttamente negli occhi lo spettatore, il viso appoggiato su una mano e la boccetta di profumo nell’altra, il sorriso dolce e un po’ enigmatico e i capelli sciolti sulle spalle.
Natsumi rimase davvero stupita dal fatto che il fratello conservasse una foto del genere dell’amica; aveva sempre sospettato che per lei provasse qualcosa di particolare, ma non ne aveva mai avuto la piena conferma. Quell’immagine poteva essere la conferma?
La sua attenzione si spostò sull’altra foto, che era “faccia a terra”, perciò non si vedevano le figure ritratte. Natsumi si inginocchiò e la raccolse, voltandola. Rimase impietrita. Era una foto che non vedeva più da tempo; quando era sparita dall’album di famiglia l’aveva cercata dappertutto senza successo.
Erano ritratti lei, Akito e il padre.
Natsumi era ancora una bimba piccola, coi codini sulla testa: uno di essi era tirato da una manina paffuta, quella del fratellino di un anno, che sedeva sulle ginocchia del papà, col ciuccio in bocca e la sua tipica espressione incolore.
Le mani della ragazza tremarono, e la foto ricadde a terra.
Ora sapeva cos’era, quel “qualcosa”.
Rimorso.
Un rimorso acuto e penetrante, subdolo come una serpe, che le mordeva in cuore in una stretta dolorosa.
- Torna a casa, Akito – sussurrò mentre dagli occhi le lacrime cominciavano a scendere copiose – torna a casa…



CONTINUA….